Nel 1794 un militare e scrittore francese, Xavier de Maistre, pubblicò un libro dal titolo “Viaggio intorno alla mia camera”, 42 capitoli per la sua esperienza di 42 giorni di confinamento. A quel titolo mi ispiro per qualche riflessione su questi primi due mesi (marzo e aprile 2020) di incontri formativi (e di team coaching) a distanza. Non avevo mai fatto un’esperienza paragonabile a questa, dove spariscono totalmente la presenza corporea, il contatto diretto, la pausa caffé, e diventano inutilizzabili i materiali e supporti-feticci del formatore: la lavagna a fogli mobili, i pennarelli e i post-it.
Prima dell’epidemia, pur avendo una certa familiarità con riunioni su Skype, con la condivisione on line di documenti, con alcune attività formative “digitalizzate” ero sostanzialmente un’appassionata delle attività in presenza, una passione sintetizzabile nella formula: l’apprendimento è relazione. La situazione imprevedibile e inedita provocata dal Coronavirus mi ha proiettata in una dimensione tutta da esplorare. Mi ha costretta a cambiare radicalmente la progettazione di contesti dove apprendimento e relazione restino possibili, ma a distanza, con piccoli gruppi di smart workers e lavoratori agili impossibilitati a recarsi in ufficio dall’oggi al domani. Su questo passaggio repentino condivido le osservazioni della sociologa Sandra Burchi che in un recente articolo sottolinea due aspetti: da un lato, il lavoro da casa nella maggior parte dei casi non è stato ne’ organizzato ne’ flessibile per spazi, tempi e produttività, con tante difficoltà tecnologiche iniziali (dal sovraccarico delle reti all’accessibilità ai server aziendali), superate con il passare dei giorni. Dall’altro, Burchi rileva che chi lavora nell’insegnamento e nella formazione si è visto spesso obbligato a trasferire tempi e modalità della docenza in presenza in modo automatico, senza nessuna attenzione al sovrappiù di ore di preparazione e all’impegno, allo sforzo, alla tensione e fatica di un corso online.
Cosa ho sperimentato e imparato in questi quaranta giorni di formazione a distanza? Mi soffermo sui cambiamenti del processo di lavoro, un incredibile esperimento collettivo di “realtà aumentata” (in senso lato). Ad ogni fase andranno dedicate cura e attenzioni diversificate che dipendono molto anche dal numero dei partecipanti agli incontri.
La durata. Quando è possibile scegliere, la durata sostenibile e produttiva di un incontro formativo on line è di due-tre ore al massimo, da intervallare con pause di almeno una decina di minuti. Ascoltare e interagire davanti ad uno schermo ininterrottamente per un tempo maggiore non è compatibile ne’ con la curva dell’attenzione, ne’ con la salute mentale e fisica dei partecipanti (ricordiamoci dell’ergonomia del lavoro a distanza). E’ infatti necessario aver cura dei nostri corpi reali nelle interazioni virtuali, corpi che patiscono lo stare seduti per tante ore al giorno (diverse persone riferiscono di mal di schiena, male alle spalle, cefalea, disturbi agli occhi, problemi digestivi).
La cura del contesto della comunicazione. Lo sfondo visibile è un punto critico di molti webinair (anche di intellettuali e famosi opinionisti) e delle riunioni a cui ho partecipato in queste settimane. La qualità dell’illuminazione è spesso trascurata (finestre dietro le spalle, controluce o, viceversa, ambienti bui), e pure lo sfondo scelto (libri e collezioni di DVD dai titoli cubitali che diventano calamite dello sguardo, tavoli ingombri di carte, attaccapanni sovraccarichi, quadri sgargianti alle pareti, ecc.). E poi, l’elemento più importante e meno considerato da tutti: l’audio (microfoni di cattiva qualità) e la voce. Per tutta la durata dell’incontro, e soprattutto quando spegniamo la videocamera, saper usare la voce è davvero importante per tenere viva la relazione a distanza. Il come è altrettanto importante del che cosa comunichiamo (quante volte l’abbiamo ripetuto nei corsi sulla comunicazione?): dare un ritmo, punteggiare il discorso, evitare il tono monocorde, il sussurrato, non mangiarsi le parole, usare le pause sono qualità importanti del nostro parlato.
Gli strumenti e gli oggetti di lavoro. Limitando il tempo della cosiddetta “comunicazione frontale” o lezione che dir si voglia (l’attenzione dura al massimo 20 minuti), è molto utile organizzare attività e predisporre strumenti che focalizzino l’attenzione su un oggetto di lavoro comune, sul quale i partecipanti interagiscano e collaborino in tempo reale e contemporaneamente. Oggetti di lavoro che permettano di “mettere virtualmente le mani in pasta”, molto curati graficamente e semplici da usare. Oltre alle funzioni formative che conosciamo, ho notato che gli strumenti (tabelle, schemi, file e disegni da completare ecc.) riescono a “contenere” sia le ansie legate all’isolamento domestico sia quelle legate all’intangibile del lavoro da remoto che dilata ancor di più il tempo sospeso (cosa ho fatto oggi? tre riunioni, quattro call, due webinair, eccetera).
L’avvio dell’incontro. Il saluto e il “come state?” (premessa routinaria e scontata di ciò che abbiamo sempre definito “patto formativo”…a proposito: come lo chiamiamo adesso?) sono diventate meno ritualistiche e retoriche. Le risposte a quella domanda sono meno prevedibili e più autentiche, piccoli segnali soggettivi di come stiamo vivendo questa lunga esperienza di lavoro a distanza, apprezzata e contemporaneamente subìta . La videocamera accesa e l’immagine di sfondo dietro il volto degli interlocutori ci dà piccole finestre di osservazione degli ambienti dove i colleghi e i partecipanti alla formazione vivono, e sono anche piccoli segni identitari e di autopresentazione di sè. Talvolta passa un cane, un gatto, un bambino, un adulto porta un caffé o risponde al cellulare in una strana, breve intimità a distanza tra persone che, in tempi normali, si sarebbero incontrate in anonime sale riunioni. E questa inconsueta intimità a distanza spesso favorisce l’ascolto, la collaborazione e l’impegno reciproco in modo inaspettato.
Lo svolgimento dell’incontro formativo. Stiamo vivendo molti cambiamenti in tutte le fasi del processo. Prima di tutto la gestione dei tempi: come orologi svizzeri sintonizzati nell’orario di inizio e di chiusura degli incontri (tempi duri per i ritardatari cronici e per chi ama dilungarsi….). Mai vista tanta puntualità e ingaggio ad esserci, al comunicare l’assenza per altri impegni (quasi sempre riunioni convocate all’ultimo). Qualcuno dice esplicitamente che gradisce molto questi appuntamenti (cosa che prima non era per niente scontata), il che denota un livello di ingaggio e di interesse che nella normalità sarebbe stato tutto da conquistare. Si tratta di organizzare sessioni guidate dalla logica della cosiddetta didattica rovesciata, dove vengono valorizzate al massimo l’esperienza e le conoscenze dei partecipanti e da lì si parte. Ho sperimentato che sollecitare il contributo di idee non provoca comunicazione caotica: la comunicazione si intreccia, le parole vengono riprese, le voci non si sovrappongono quasi mai (quando si apre il dibattito l’interruzione è gentile e preceduta da un “scusa se ti interrompo”). Anche le sospensioni temporanee di attenzione per rispondere ad un messaggio o ad una mail sono precedute da un “mi assento un attimo per…”. In aula questo succede raramente. I file di lavoro condivisi sono leggibili (e vengono letti) da tutti e favoriscono la comunicazione aperta tra settori che di solito operano a silos. In quest’artificiale “realtà aumentata” del lavoro a casa ci scopriamo in apprendimento orizzontale, e più disposti a chiedere ad altri “che ne sanno più di noi”.
La chiusura dell’incontro è altrettanto importante dell’apertura: darsi feedback, raccogliere dubbi, domande è cruciale, permette al formatore di correggere il tiro e, soprattutto, ci fornisce preziosi elementi per la fase successiva. Nel caso di percorsi formativi lunghi e articolati come sarà quello di INPS Valore PA, i materiali da leggere, i film da vedere, le attività da completare a distanza saranno elementi che scandiscono il processo di apprendimento individuale e di sottogruppo. Il processo non è certo lineare: al bisogno di socialità a distanza, all’apprezzamento della visibilità e “tangibilità” di ciò che si è prodotto, alla curiosità per ciò che si riesce a fare digitalmente, da remoto, si alternano momenti di stanchezza e di scoraggiamento, la sensazione di aver “combinato poco o niente”. Nella realtà quotidiana del tutto on line cambia il significato di fare e produrre, si espande la percezione del tempo perso, sprecato, non finalizzato, Un’altalena emotiva che vive anche il formatore/coach/consulente e che va elaborata nel tempo, cercando insieme ancoraggi provvisori di senso.
Il dopo è adesso. Che cosa rimarrà di questo modo di fare formazione quando il lockdown sarà finito e diventerà un ricordo lontano? Avremo prodotto un apprendimento diffuso e utilizzabile dai partecipanti? Se non considereremo queste settimane (mesi) di sperimentazione un mero “fare di necessità virtù”, riponendo nel cassetto (virtuale) gli strumenti che hanno sostituito i nostri concreti oggetti-feticcio, credo che la nostra capacità di realizzare una formazione di qualità sarà più ampia e diversificata e che ne usciremo tutti trasformati ed empowered. E non solo digitalmente più evoluti.